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Dalla Spagna all’Algeria a piedi

sulle tracce dei film di Tony Gatlif

DI GIULIA UBALDI

Spesso soprattutto in passato, mi è capitato di essere, in modo del tutto innocente, “invidiata” per i miei viaggi, per i luoghi che visitavo e soprattutto per come li visitavo. In realtà è arrivato il momento di fare una confessione: nella maggior parte dei casi dietro all’organizzazione di questi itinerari, c’era quasi sempre un film che avevo visto. È esattamente quello che successo con Exils di Tony Gatlif, quando sono andata dalla Spagna all’Algeria non in aereo, ma con vari mezzi: bus, auto, treni e traghetti passando per Ceuta e per lo Stretto di Gibilterra.

Chi è Tony Gatlif e i suoi film

Tony Gatlif è un regista, sceneggiatore, compositore e attore nato nel 1948 ad Algeri, nell’allora Algeria francese, da madre rom e padre cabilo. Sono proprio questi i due mondi che esplora e racconta in quasi tutti i suoi film: la cultura gitana, sparsa per il Mediterraneo, soprattutto nella sua amata Andalusia che compare quasi sempre nei suoi film e il legame della Francia con l’Algeria, ancora estremamente vivo, un passato per niente passato.

Tony Gatlif, infatti, nel 1960, durante la Guerra d’Algeria, si trasferisce con la famiglia in Francia dove frequenta un corso d’arte drammatica e recita a teatro per anni fino a realizzare il suo primo film nel 1975, La tête en ruines. Dagli anni 80’ inizia a fare cinema, con opere di carattere fortemente antropologico ed etnografico, dove la musica ha sempre un ruolo estremamente centrale, per Gatlif un potere liberatorio, tant’è che i suoi film sono sempre delle immersioni musicali. Non a caso, ha vinto due volte il Premio César per la migliore musica da film, nel 1999 con Gadjo dilo – Lo straniero pazzo e nel 2001 con Vengo – Demone flamenco. “Nella musica il controtempo è come uno che si alza quando tutti stanno in ginocchio, è provocatorio”, dice nel suo ultimo film Ange, uscito proprio ieri 25 giugno 2025. Nel 2004, invece, era è stata la volta del Premio per la miglior regia al Festival di Cannes con il film Exils, la storia di Zano, interpretato da Romain Duris e la sua ragazza Naima, l’attrice Lubna Azabal, che decidono di fare un viaggio via mare e via terra da Parigi, dove vivono, attraverso l’Andalusia fino all’Algeria per riscoprire le proprie radici, cioè per conoscere il luogo che i loro antenati hanno dovuto abbandonare.

Un viaggio di musica e libertà attraverso il Mediterraneo, dove i due protagonisti compiono il viaggio della diaspora ma all’inverso. Dopo aver visto questo film, sono partita.

Il mio viaggio dalla Spagna all’Algeria

Anche nel mio caso il filo conduttore è stata la musica. Sono arrivata a Siviglia, punto di partenza del viaggio, da cui passano anche i due attori del film, in occasione del concerto del cantante spagnolo Melendi. Da qui, poi vari bus per arrivare a Tarifa, una delle città più affascinanti e poetiche mai viste, a picco sul Mediterraneo.

Attraversare lo Stretto di Gibilterra in traghetto, cioè il mare che connette l’Atlantico al Mediterraneo è stata una delle esperienze più forti che abbia mai provato. Si arriva a Ceuta, dove ogni giorno dalle 50 alle 10 mila persone percorrono il confine tra Marocco e Spagna per andare a lavorare. Perché Ceuta è geograficamente in Africa, ma politicamente in Europa, infatti il Marocco lo considera un territorio occupato e da anni chiede la sua annessione. Sono solo 8 chilometri, ma che causano morti di continuo nel tentativo di scavalcare una barriera fisicamente (e mentalmente) sempre più alta, passata da 3 a 6 metri di altezza.

Da lì siamo arrivati a Tangeri, percorrendo le montagne e gli uliveti del Marocco in autobus e in treno, proprio come nel film, fino all’arrivo poi in Algeria. Anche al ritorno abbiamo scelto il percorso via terra e via mare, con varie tappe in Andalusia: da Ronda a Cadice, fino a El Puerto di Santa Maria, tutte città care a Gatlif, che compaiono spesso nei suoi film, a cui io ho aggiunto una tappa nel ristorante stellato Aponiente, prima di arrivare a Malaga per il concerto degli Estopa. Ma a stupirmi è stata la fermata a Gibilterra, l’ultima (per fortuna) colonia inglese in Europa, perché Gibilterra è un posto assurdo: già per entrare bisogna attraversare una pista di atterraggio aereo. La lingua parlata dai gibilterrini è il Llanito (che si pronuncia Yanito), che alterna di continuo, anche all’interno della stessa frase, inglese, ligure, spagnolo, andaluso e arabo. Questo si rispecchia anche nella cucina, ricca di varie influenze e con ristoranti da tutto il mondo. Ad esempio, uno dei cibi più rappresentativi di Gibilterra è la calentita, una sorta di farinata ligure ma più spessa, chiamata così perché si mangia calda (caliente, appunto in spagnolo). Gli italiani presenti a Gibilterra, non a caso, sono per lo più di origine ligure, in particolare genovese.

Ma in realtà non dovrebbe stupirci troppo visto, che l’utilizzo della farina di ceci in modi diversi è cosa ben comune in tutto il Mediterraneo e non poteva quindi mancare proprio, nello stretto che apre le porte al Mediterraneo.

La karantika e la farina di ceci nel Mediterraneo

Non potevamo che scegliere un piatto, o meglio un ingrediente, che attraversa il Mediterraneo, proprio come abbiamo fatto noi e i protagonisti del film, ovvero la karantika e la farina di ceci. Sfruttare la farinosità dei legumi è un accorgimento dalle antiche origini e dettato soprattutto dalla necessità, scrive Roberto Caravaggi su Il Giornale del Cibo. “In territori dove il grano era una risorsa difficilmente accessibile per via del costo, le famiglie contadine hanno imparato a trovare delle alternative, come il mais, da cui deriva la polenta, oppure i legumi, come i ceci appunto. La loro caratteristica farinosità li rende, infatti, ideali nella preparazione di impasti in sostituzione o a integrazione della classica farina”. Per questo motivo oggi troviamo la farina di ceci preparata in modi diversi in tutto il Mediterraneo; basti pensare alla socca di Nizza, alla fainè sassarese, alla cecina toscana o alla farinata e alla panissa liguri. Scendendo più a sud, in provincia di Massa Carrara, è detta invece calda calda, in riferimento al fatto che va gustata possibilmente appena sfornata, proprio come in Spagna. Nel livornese è conosciuta come 5 e 5, ovvero 5 lire di torta di ceci e 5 lire di schiacciata, in nome della tradizione popolare di assaporarla in accompagnamento alla tipica focaccia locale, continua Roberto. In Piemonte, soprattutto nell’alessandrino, è chiamata belécauda, mentre in Emilia-Romagna, in particolare a Ferrara, è nota come padellata di ceci.

La karantika è la versione algerina, cioè una pastella di farina di ceci cotta al forno, ma a differenza delle altre versioni è ricoperta di uovo sbattuto ed più alta e morbida, sembra quasi una crema. È uno street food, di solito si mangia con harissa e cumino dentro al pane per strada, proprio come pane e panelle in Sicilia, dove la troviamo quasi sempre in una mafalda, il tipico pane filoncino siciliano con semola di grano duro, dalla forma intrecciata, morbido e con la superficie cosparsa con semi di sesamo. Forse la versione più simile a quella algerina, quella che ci ricorda come nel Mediterraneo alla fine siamo sempre molto più vicini di quello che crediamo.

La ricetta della karantika di Ilaria Vitale

Vi diamo la ricetta della karantika della chef Ilaria Vitale, originaria dell’Emilia Romagna, ma che ha vissuto per anni in Algeria.

Ingredienti:

  • 700 ml di acqua
  • 2 uova medie
  • 180 gr di farina di ceci
  • 80 ml di olio di semi
  • 1 cucchiaino di cumino
  • sale
  • pepe
  • olio d’oliva per la teglia

Procedimento:

  • Accendere il forno statico a 180°C.
  • In un recipiente capiente mescolare acqua, uova, una manciata di sale e pepe a gusto. Per assicurare una corretta miscelazione delle uova con l’acqua, si consiglia l’utilizzo di un frullatore a immersione.
  • Unire poi l’olio di semi, la farina di ceci e il cumino.
  • Miscelare bene, sempre utilizzando il frullatore a immersione. Il composto sarà liquido ed è giusto che sia così.
  • Ungere con olio di oliva una teglia rotonda di circa 28 cm di diametro (è possibile utilizzare anche una teglia rettangolare).
  • Versare il composto e mettere in forno per 40 minuti.
  • Attivare la funzione grill per gli ultimi 5 minuti. Il composto risulterà cremoso e dorato in superficie.
  • Lasciare intiepidire e servire con il kesra oppure dentro una baguette, sempre accompagnato dalla salsa harissa.

Come anticipato, la karantika si mangia sempre con il pane, per questo abbiamo deciso di darvi anche la sua ricetta della kesra, il pane tipico algerino.

La ricetta della kesra di Ilaria Vitale

Se parliamo di cibo nel Mediterraneo, non possiamo dimenticare il pane, in particolare la pita che è il pane mediterraneo per eccellenza. La ritroviamo infatti con nomi diversi dal Marocco al Sud Italia fino alla Grecia e all’Afghanistan; in Algeria, ad esempio, si chiama kesra, ha origini antichissime berbere, ed è fatto con semola di grano. Si mangia con quello che si vuole, come ad esempio olive, peperoni cotti, etc.

Ingredienti:

  • 500 gr di farina di semola di grano duro rimacinata
  • 100 gr di olio (di cui 70 gr di olio di oliva e 30 gr di altro olio vegetale, ad esempio olio di semi di girasole)
  • 10 gr di sale
  • 200 gr di acqua

Procedimento:

  • Mescolare gli ingredienti secchi in una ciotola capiente unendo i 500 g di farina di semola rimacinata e i 10 g di sale. Mescolare bene con le mani.
  • Aggiungere l’olio: versare i 100 g di olio (70 g di olio d’oliva e 30 g di olio di semi) sulla farina. Lavorare il composto con le mani fino a ottenere una consistenza sabbiosa: la semola dovrà assorbire bene l’olio.
  • Incorporare l’acqua: aggiungere gradualmente l’acqua a temperatura ambiente, impastando man mano. Aggiungere l’acqua fino ad ottenere un impasto liscio, morbido ma non appiccicoso (potrebbe non essere necessario aggiungere tutta l’acqua per questo versarla gradualmente)
  • Impastare e lasciare riposare: lavora l’impasto per circa 5-10 minuti fino a renderlo elastico. Una volta lavorato, l’impasto potrebbe non risultare ancora totalmente omogeneo. Coprirlo con un canovaccio e lasciarlo riposare per 15-20 minuti – questo aiuterà il composto a “rilassarsi” e apparire più liscio.
  • Formare 2 kesra: dividere l’impasto in due panetti. Su un piano leggermente infarinato con semola, stendere poi ogni panetto in un disco spesso circa 1 cm con l’aiuto di un mattarello.
  • Cuocere: scaldare una padella antiaderente o preferibilmente in ghisa a fuoco medio. Cuocere il kesra prima da un lato, bucherellando la superficie per evitare che si gonfi troppo. Cuocere per circa 5-7 minuti per lato, finché sarà dorato fuori e cotto all’interno.
  • Lasciare intiepidire e servire tagliato a spicchi. È ottimo da solo, con olio e harissa, oppure per accompagnare stufati e tajine.

Come avrete notato, ricorda un po’ la piadina romagnola: per questo, con questa ricetta vi lasciamo anticipandovi che la prossima puntata sarà proprio in Romagna.

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